Cassazione: condanna al datore di lavoro per il demansionamento professionale su nuova riorganizzazione aziendale.

Con la sentenza n. 26477 del 19.10.2018, la Cassazione afferma che, laddove, a seguito di una riorganizzazione, venga accertato un demansionamento professionale, la società ha l’onere di provare l’inesistenza, nell’ambito del proprio compendio aziendale, di un altro posto disponibile equiparabile al grado di professionalità precedentemente raggiunto dal dipendente interessato.

Il fatto di causa

La lavoratrice ricorre giudizialmente chiedendo l’accertamento della dequalificazione professionale operata dall’azienda datrice nei propri confronti e la conseguente condanna della medesima al risarcimento dei danni subiti in conseguenza di ciò.
La società si difende sostenendo la legittimità dell’adibizione della dipendente ad una qualifica inferiore, stante la soppressione della funzione precedentemente ricoperta a seguito del nuovo assetto organizzativo adottato.

La sentenza

La Cassazione, confermando quanto stabilito dalla Corte d’Appello, afferma che l’art. 2103 c.c. deve interpretarsi alla stregua del bilanciamento del diritto del datore a perseguire un’organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e di quello del lavoratore al mantenimento del posto.
Pertanto, ove, nell’ambito di una riorganizzazione aziendale, il demansionamento rappresenti l’unica alternativa al recesso datoriale, non sono necessari un patto ad hoc o una richiesta del prestatore in tal senso anteriore o contemporanea al licenziamento, ma è onere del datore, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, prospettare al dipendente la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori compatibili con il suo bagaglio professionale.

Secondo i Giudici di legittimità, la disciplina prevista dall’art. 2103 c.c. deve essere interpretata alla stregua dei principi dettati in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in ordine all’obbligo di repechage.


Ne consegue che, quando il lavoratore allega un demansionamento riconducibile ad un inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore ai sensi dell’art. 2103 c.c., è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo: ciò attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento ovvero attraverso la prova del legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari oppure, in base all’art. 1218 c.c., fornendo la prova di un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.

Posto che, nel caso di specie, non è stata fornita da parte datoriale la suddetta prova liberatoria, la Suprema Corte rigetta il ricorso proposto dalla società, confermando la condanna della stessa al pagamento di un risarcimento alla propria dipendente demansionata.

19 luglio 2020

CUB Campania